La recente pubblicazione, per i tipi Solferino, del ben documentato libro di Jennifer Clark, “L’ultima dinastia – La saga della famiglia Agnelli da Giovanni a John”, ha riacceso di colpo la memoria di un vecchio dirigente Fiat che ha conosciuto, e bene, fatti e misfatti, opere e miracoli dell’“Avvocato di panna montata” (come lo sbertucciava su “Repubblica” Eugenio Scalfari).
Un passo indietro. Dal dopoguerra fino alla fine anni Sessanta, la gestione dell’azienda torinese era ancora nelle salde mani di Vittorio Valletta che consigliò all’erede scelto da nonno Giovanni di togliersi dai piedi (“Prenditi qualche anno di libertà prima di immergerti nelle preoccupazioni dell’azienda”), e Gianni non se lo fece ripetere due volte.
Insieme al suo amico e “naso comunicante” Raimondo Lanza di Trabia, il futuro timoniere della Fiat era libero e bello di scorrazzare su e giù per le feste e i locali della Costa Azzurra alla ricerca continua di femminili godimenti di breve durata. E cocaina a volontà, ma non per vizio come l’amico Raimondo, ma per divertimento.
Con in tasca una rendita di 600 milioni di lire l’anno, confortato da ville sfarzose, yacht doviziosi e aeroplano personale, l’erede Fiat viaggiava in continuazione in tutto il mondo, frequentando le persone più famose del jet-set internazionale: attrici, principi, magnati, uomini politici (i suoi rapporti di amicizia con John Fitzgerald Kennedy, allora senatore democratico, risalgono a quegli anni come pure la frequentazione dei banchieri David Rockefeller e André Meyer della banca d’affari internazionale Lazard, conosciuti attraverso Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia).
Fino a 45 anni, quando nel 1968 l’ultra-ottantenne Valletta passò il testimone del comando dell’azienda di famiglia, l’Avvocato ha vissuto scopando e pippando, come se ogni giorno fosse l’ultimo. Malgrado che nel 1953 si fosse unito in matrimonio con la principessa Marella Caracciolo di Castagneto, è sempre stato un “adorabile infedele” (Enzo Biagi in “Dinastie”). E lo ammetteva senza ipocrisie: “Sono sempre stato un marito devoto. Ma se pretendessi di essere fedele direi una bugia. Nella vita mi è sempre piaciuto tutto ciò che è bello, e una bella donna è la massima espressione della bellezza”.
A proposito della sua leggenda di sciupafemmine, sottolineò: “Si può far tutto, ma la famiglia non si può lasciare”. Quindi: “Ci sono due tipi di uomini: gli uomini che parlano di donne, e gli uomini che parlano con le donne; io di donne preferisco non parlare”. Amorale della favola: “Ho conosciuto mariti fedeli che erano pessimi mariti. E ho conosciuti mariti infedeli che erano ottimi mariti. Le due cose non vanno necessariamente insieme”.
Torniamo a bomba, per svelare ai lettori di Dagospia una bombastica storia del tutto inedita, ma, allo stesso tempo, va ammesso che non è mai stata sostenuta da uno straccio di documento e nemmeno da indiscrezioni gossipare, data la strettissima vigilanza sugli organi di stampa da parte della Famiglia Agnelli (con la pubblicazione di articoli e foto non graditi a Torino si rischiava di veder sfumare le inserzioni pubblicitaria Fiat).
L’unica voce a sostegno della storia arriva dalla vecchia e scomparsa Torino Fiat-dipendente, un ex dirigente apicale del Lingotto dotato ancora di buona memoria che ricorda bene la brutta disavventura che vide l’Avvocato e il famoso playboy Gigi Rizzi finire per tre giorni in una poco chic galera francese.
Stando alle cronache il Gigi da Piacenza, ma genovese d’adozione, bellissima presenza, simpatia a presa rapida, parlantina sciolta con erre arrotata alla Gianni Agnelli, aveva già fatto, come si suol dire, strage di cuori. Con Beppe Piroddi e Franco Rapetti e un altro paio di più oscuri collezionisti di pupe, formava il rinomato, o famigerato, gruppo ‘’des Italiens’’. Con il flirt con Brigitte Bardot nel 1968, Rizzi era salito alla ribalta mondiale, ma l’anno prima aveva lanciato una discoteca in Italia, il Number One di Milano che nel 1969 replicò anche a Roma.
Ma la discoteca romana, che ebbe subito un grande successo, durò poco: una retata della narcotici nel 1972 portò alla chiusura. Ricorda Rizzi: “Purtroppo il Number One scaricava anche montagne di cocaina nelle narici più o meno nobili dei suoi frequentatori. Tiravano tutti, attorno a noi la polvere bianca era come la nuvola radioattiva di Chernobyl, ti contaminava dentro e fuori. Poi cominciarono le prime retate eccellenti…”.
Detto questo, cosa opportuna per comprendere il clima sfrenato di quegli anni e inquadrare il luogo avvenne misfatto con Agnelli, è bene riprendere in mano l’autobiografia di Gigi Rizzi, dal titolo “Io, BB e l’altro ’68”.
“Mettiamo una data e qualche punto all’estate più lunga della mia vita: 23 giugno 1968, festa per il mio compleanno, cena al Cafè des Arts, una ventina di amici, champagne a fiumi, solita caciara contagiosa, follie in vista. Improvvisamente appare Gianni Agnelli, in jeans, blazer, la camicia bianca aperta sul petto. Era arrivato a Saint-Tropez con la flotta: il GA 30, il GA 50, velocissimo, e l’Agneta, un due alberi in legno che entrava in porto a vele spiegate, una manovra eccezionale e spericolata, che molti cercavano di imitare rischiando di sfracellarsi sul molo.
L’Avvocato era un mito per la mia generazione, le sue apparizioni lasciavano sempre il segno. Stava con Dino Fabbri, Renzino Avanzo e Paolo Vassallo, avevano un tavolo prenotato all’Escale, ma in pochi minuti aveva liquidato tutto: “Che cosa facciamo in questa tea room, andiamo anche noi alla festa di Gigi”. Al mio compleanno c’erano Jacqueline de Ribes, Marina Cicogna, una Florinda Bolkan agli albori e il resto della banda.
La notte di Saint-Tropez ha delle scadenze precise e quella sera l’itinerario era segnato. Avevamo stabilito noi le fermate dell’autobus. Perché se vai a mezzanotte all’Esquinade è un errore mortale. Se vai alle due al Papagayo è un altro errore mortale. Perché a mezzanotte o all’una all’Esquinade non trovi nessuno, alle due al Papagayo ci sono milioni di persone, insopportabile. Noi ci smarcavamo sempre, gli altri ci seguivano.
Trascinammo anche l’Avvocato nel tour delle boîtes, la sua presenza era certamente casuale ma in quei giorni di euforia mi sembrava un segnale, il segnale che l’Italia era con noi. Non ce n’era per nessuno quando arrivavano gli azzurri”.
Il fattaccio avvenne in una boîte di Cap Ferrat, baia dei miliardari che non ha mai portato molta fortuna all’Avvocato: proprio nelle acque di Cap Ferrat che l’obbiettivo di Daniel Angeli rubò il celebre scatto di un Gianni Agnelli desnudo col pisello al vento che si tuffava dalla sua barca a vela.
Una volta occupato il night club di Cap Ferrat dalla truppa sbronza e su di giri capitanata da Gigi Rizzi, rinforzata dalla presenza chic dell’Avvocato, sarebbe successo di tutto e di più, fino al punto che i proprietari del locale chiesero l’intervento delle forze dell’ordine per frenare la babilonia “des italiens”. Una retata che trovò i nostri eroi in possesso di dosi di cocaina e Gigi e Gianni finirono in gattabuia (nel ’69 ancora doveva entrare in vigore l’uso personale di stupefacenti).
L’ex dirigente del Lingotto ricorda bene che la notizia del presidente Fiat agli arresti per droga mise sottosopra l’austero vertice dell’azienda: da Torino partirono immediatamente plotoni di legali per farlo uscire subito dalla prigione francese e di lobbysti impegnati a soffocare la faccenda sulla stampa.
Se il secondo compito andò a segno, e la notizia non trapelò su nessun giornale, il primo, quello degli avvocati per farlo uscire subito, sbatté sul rigido ordinamento giudiziario francese. E ci vollero ben tre giorni di trattative per far rivedere il sole senza sbarre a Gianni Agnelli.