DIETRO L’OMICIDIO PASOLINI C’E’ IL FURTO DELLE BOBINE DI “SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA”? SERGIO CITTI FU IL PRIMO A PARLARE DELLA PISTA DELLE “PIZZE” DEL FILM COME ESCA PER ATTIRARE IL POETA ALL’IDROSCALO. MA PERCHÉ NE PARLÒ APERTAMENTE SOLO NEL 2005, CIOÈ TRENT’ANNI DOPO IL DELITTO E QUASI IN PUNTO DI MORTE? DA ALLORA È SULLO “SCHEMA-CITTI” CHE SONO TORNATE A INNESTARSI TUTTE LE IPOTESI DEL MOVENTE POLITICO – L’OMBRA DELLA BANDA DELLA MAGLIANA…
Nell’Italia del 1975 vennero rapite a scopo estorsivo 62 persone, più le bobine di tre film in stato più o meno avanzato di lavorazione. Erano i negativi dello spaghetti-western di Damiano Damiani Un genio, due compari, un pollo, quelli del Casanova di Federico Fellini e di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini prima che finisse ucciso a Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre dello stesso anno.
Il Poeta fu attirato all’Idroscalo con la promessa di riavere indietro quelle pellicole? Recentemente l’ipotesi ha ripreso quota nella relazione dell’uscente (XVIII legislatura) Commissione parlamentare antimafia come plausibile retroscena del delitto. Benché circolasse da tempo, fino ad oggi non era mai stata messa nero su bianco in un documento istituzionale. Anche per questo, sulla base delle audizioni svolte dalla Commissione, l’avvocato Stefano Maccioni, legale del cugino di Pasolini, Guido Mazzon, ha lanciato una petizione on line per la riapertura delle indagini.
Eppure, quasi cinquant’anni dopo, la pista delle “pizze” rubate scricchiola. Parecchio. Cercheremo di capire perché ripercorrendo la vicenda dall’inizio, attraverso le carte custodite dall’indispensabile Centro Studi e Archivio Pasolini di Bologna, che – fortissimamente voluto dalla tellurica Laura Betti – compie giusto vent’anni in questo 2023.
A un certo punto affiorò perfino l’ombra del grande intrigo internazionale. I giornali riferirono che a New York un sedicente avvocato si era presentato negli uffici della Technicolor mostrando frammenti di pellicola del Casanova e chiedendo 150 milioni per la riconsegna del materiale. Dopodiché, stop, anche la pista Usa finì nello sciacquone. Come le foto del rapito con un giornale in mano, gli spezzoni funzionavano da prova dell’esistenza in vita dell’ostaggio-film.
Nei primi giorni delle indagini si scatenò una caccia al fotogramma tanto convulsa quanto, all’occasione, farsesca. Sia di Salò che del Casanova vennero fatti ritrovare segmenti qua e là. Ma abbondarono pure le patacche. Allertati da chiamate anonime, carabinieri e poliziotti reperivano in cascinali fantasma dell’agro romano o tra le cicorie bordanti le vie consolari ritagli di celluloide che spesso si dimostravano appartenere a filmini casalinghi: scene da un matrimonio, un battesimo, una prima comunione… tavolate, bicchierate, magari qualche stornello.
Ma mentre gli inquirenti brancolavano in quella no man’s land tra depistaggio e pernacchia, la macchina-cinema si mobilitava in una corsa contro il tempo. Pur di non cedere al ricatto si diede fondo alle più sofisticate risorse tecnologiche. Risultato: in poche settimane il guaio delle pizze imboscate fu risolto. Come? Ce lo spiega ancora il collaboratore di Pasolini, Enzo Ocone: “Dopo i primi momenti di sconforto, mi si offrì una possibilità di venire a capo del problema senza dover rigirare tutto. Da un paio di mesi la Kodak americana aveva messo sul mercato un tipo di pellicola speciale, chiamata Cri, Color Reversal Intermediate, un supporto che a contatto con una pellicola positiva ne rilasciava al 90 per cento una identica al negativo originale. Fantastico”.
Ripristinare i negativi perduti dai positivi con una minima perdita di qualità: la soluzione convinse i registi? “Facemmo delle prove e gli esiti furono lusinghieri. Convocai il direttore della fotografia, Tonino Delli Colli, per approvare l’operazione e ne fu entusiasta. Dopodiché tranquillizzai Grimaldi, che riprese colorito e tornò a sorridere. Pasolini, lui, saltava dalla gioia. Tutti contenti di non subìre ricatti, finimmo il montaggio del film e le operazioni di edizione”. Lo stesso procedimento – in gergo tecnico “controtipaggio” – fu impiegato per il Casanova, conferma al Venerdì Gianfranco Angelucci, regista, scrittore e sceneggiatore di Fellini.
Per quanto riguarda Salò, le scene delle quali non fu possibile realizzare “controtipi” vennero sostituite con “riserve”, cioè inquadrature di seconda scelta, “doppi considerati ugualmente buoni da Pasolini” (l’Unità 18 settembre ’75). Può sembrare un’arida questione tecnica, ma non lo è. È plausibile infatti che a film ormai montato, editato, chiuso, il Poeta si sia avventurato in una perigliosa ricerca delle pizze mancanti, investigando nel sottosuolo, a lui pure familiare, della malavita romana?
È immaginabile che tenesse a quei negativi non più necessari così tanto da fidarsi del diciassettenne Pelosi (a questo punto non semplice “esca sessuale” ma vero e proprio intermediario nell’affaire) e da farsene abbindolare fino all’Idroscalo? A molti – compresa la Commissione antimafia – sembra uno scenario assolutamente credibile. Ci credeva soprattutto Sergio Citti. Fu lui per primo a collegare furto delle bobine e omicidio.
Ma perché ne parlò apertamente solo nel 2005, cioè trent’anni dopo il delitto e quasi in punto di morte? Sta di fatto che da allora è sullo “schema-Citti” che sono tornate a innestarsi tutte le ipotesi del movente politico. Ipotesi che, in sostanza, leggono la restituzione dei negativi come espediente per eliminare un Pasolini-detective che sarebbe stato in possesso, vuoi in procinto di divulgare prove, documenti letali sui grandi segreti italiani: la morte di Enrico Mattei, le stragi…
Interpretazioni che negli ultimi anni hanno trascinato dentro il caso PPP una nuova congerie di personaggi insondabili: futuri esponenti della Banda della Magliana, biscazzieri di borgata, mediatori fantasma, poliziotti infiltrati nel sottobosco criminale… Tutto a partire da quella sporca dozzina di pizze. Pizze che, tra l’altro, sei mesi dopo l’uccisione del Poeta, vennero ritrovate. Ma, come vedremo, in circostanze – se possibile – ancora più misteriose di quelle del furto.
Nell’aprile del 1976, il diciassettenne Pino Pelosi viene condannato in primo grado a 9 anni e rotti come assassino di Pier Paolo Pasolini. “Omicidio volontario in concorso con ignoti” recita la sentenza, che però sarà presto impugnata dalla Procura generale, confermata, ma alleggerita del “concorso con ignoti”. Per la giustizia, Pino “la Rana” ha ucciso da solo. Pestando di botte il poeta e poi schiacciandone il corpo riverso, al volante della di lui automobile. In quel processo Guido Calvi fu, insieme a Nino Marazzita, l’avvocato di parte civile per la famiglia Pasolini. Che all’Idroscalo di Ostia la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 si sia consumato un assassinio di gruppo sembra ormai cosa difficilmente oppugnabile.
Ma che quella notte, raggirato da Pelosi, Pasolini contasse di recuperare a Ostia le bobine del film Salò, rubate mesi prima, è un’ipotesi valida, come oggi sostiene chi vorrebbe far riaprire le indagini? Lo chiediamo a Calvi. “Penso che la storia delle pellicole sia vera” dice. “Pier Paolo aveva saputo che i ladri erano disposti a restituire il materiale”. Materiale di cui però lui non aveva più bisogno, i negativi sottratti erano stati sostituiti e il film concluso. “Sì, ma se ti rubano qualcosa e hai l’opportunità di riaverla, che fai, non vai almeno a vedere? Certo, si tratta di verificare se la disponibilità a riconsegnare la refurtiva fosse o meno finalizzata a un agguato”.
Un po’ diversa l’opinione di Nino Marazzita: “La pista di Salò non mi ha mai convinto” spiega al Venerdì “l’ho sempre scartata. Non pregiudizialmente, ma per mancanza di elementi solidi. Ciò detto, non possiamo escludere che nonostante quei rulli non fossero più indispensabili, Pasolini volesse comunque scoprire la verità sul furto e i suoi autori. Perché è così che funzionano certe teste geniali: vogliono capire, sempre capire, costi quel che costi”.
Ma quando e da dove spuntò la pista delle “pizze” del film come esca? “Da Sergio Citti. Fin da subito si era disperatamente lanciato alla ricerca della verità” ricorda Marazzita. “Mi telefonava di continuo, veniva in studio. Non si dava pace. A Pasolini doveva tutto”. E sia. Ma in trent’anni di indagini private portate avanti fino allo stremo, Citti disse molte cose che non sempre combaciavano. Proviamo a rimetterle brevemente in fila.
In un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 10 aprile del ’76, ossia durante il processo Pelosi, il regista e sodale di PPP raccontava riguardo all’omicidio: “Certa gente mi ha rivelato certe cose… Quanti erano quella notte io non lo so. Ma so com’è andata. E come tutto è stato organizzato bene… Pier Paolo non sarebbe mai andato là. Che bisogno aveva di andare là? Sì, conosco verità che non posso dire”. Per quanto oscuramente, Citti sembrava alludere a un’imboscata in cui Pasolini sarebbe stato attirato “là”, a Ostia.
Ancora nessun riferimento esplicito però alla faccenda delle pizze. Che ci risulti, tra i primi a mettere per iscritto l’ipotetica connessione tra furto e omicidio fu nel 1994 il regista Marco Tullio Giordana. Nell’ultimo capitolo del suo libro Pasolini. Un delitto italiano, commentando proprio quell’intervista di Citti, l’autore rievocava la vicenda delle bobine di Salò, trafugate negli studi romani della Technicolor a metà agosto ’75 insieme a quelle del Casanova di Fellini e del western di Damiano Damiani Un genio, due compari, un pollo.
Ma Giordana aggiungeva: “Verso settembre, un emissario della banda avvicinò Sergio Citti perché trattasse con Pasolini la restituzione dei negativi rubati”, poi però “l’emissario sparì di colpo nel nulla. Invitato dalla polizia a identificarlo, Citti non riuscì a ritrovarne i connotati nelle segnaletiche. Precisa fu l’impressione che la banda fosse composta da dilettanti alle prime armi, minacciosi e feroci proprio per inesperienza”. Quello che all’inizio delle indagini era stato presentato come uno “scasso” da professionisti diventava adesso – e forse più verosimilmente – l’audace colpo di una gang di borgata.
Ma, al di là di chi avesse compiuto l’operazione, da dove saltava fuori la storia dell’emissario scomparso? Probabilmente Citti ne aveva parlato nel suo entourage. Nel libro-inchiesta La macchinazione (2015), il regista e scrittore David Grieco riferisce che le prime rivelazioni circa il furto di Salò gli furono fatte da Citti “alla fine degli anni Settanta”. Solo più tardi, tuttavia, l’amico di Pasolini avrebbe dettagliato quanto aveva scoperto. Sempre a Grieco, Citti raccontò che qualche giorno dopo il furto era stato abbordato da un tizio di sua conoscenza, tale S.P. (nel 2011, ancora in vita, l’uomo fu interrogato senza cavarne nulla), che l’aveva portato in un seminterrato del quartiere romano di San Basilio dove era riunita al gran completo la banda dei rapinatori.
I ladri erano imbelviti perché alla richiesta di un riscatto da due miliardi, il produttore di Salò Alberto Grimaldi aveva risposto che avrebbe sganciato massimo 50 milioni – cifra considerata umiliante. Sennonché, di botto, durante quell’incontro con Citti, l’atteggiamento dei ragazzotti si sarebbe inspiegabilmente ribaltato, addolcito: “Se semo sbajati” avrebbero ammesso buoni buoni, dicendosi pronti a restituire le pizze gratis. Però senza Citti di mezzo: direttamente a Pasolini.
Da due miliardi a zero? Inversione di rotta perlomeno singolare. Ma ce ne sarebbe stata pure una seconda. Appresa da Citti la disponibilità dei sequestratori alla riconsegna, PPP avrebbe inizialmente rifiutato di incontrarli. Per paura della nuova generazione criminale: “Questi sono cambiati, non sono più quelli di prima, questi si drogano, uccidono su commissione, sono capaci di qualsiasi cosa” avrebbe detto. Ma allora perché poi cambiò idea accettando l’appuntamento? Perché “s’è fidato de Pelosi” era la spiegazione di Citti.
Nel maggio 2005, reagendo alle clamorose, quanto tardive e reticenti dichiarazioni di Pino Pelosi – che in tv aveva detto per la prima volta di non essere l’assassino di Pasolini, addossando l’omicidio a tre figuri di cui si guardò bene dal fare i nomi – Sergio Citti risfoderò in alcune interviste la storia dell’agguato a mezzo pizze, ma sfrondandola di molti particolari e aggiungendone altri. Secondo la sua nuova ricostruzione, nella notte del delitto, sempre inseguendo i famosi negativi, Pasolini avrebbe fatto tappa con Pelosi ad Acilia. Lì sarebbe stato assalito in auto da individui che lo avrebbero portato a Ostia per eliminarlo.
Nel luglio successivo, più laconicamente, un Citti ormai malatissimo (sarebbe morto in ottobre) ripeté quella versione davanti all’avvocato Calvi e a Gianni Borgna, allora assessore alla cultura del Comune di Roma. Lo fece in un video, reperibile su YouTube, commentando un prezioso filmato che aveva girato all’Idroscalo una decina di giorni dopo l’omicidio. Ma quanto erano affidabili i suoi racconti del 2005, cioè a trent’anni di distanza dai fatti?
Pochi mesi prima, intervistato da Repubblica, Citti non aveva forse affermato che “Pier Paolo è stato ammazzato sulla Tiburtina e poi portato a Ostia”? E nelle conversazioni con Grieco non aveva forse detto che “quelli di San Basilio” erano la Banda della Magliana, che però all’epoca non era ancora costituita?
Ma rendiamo onore alle accanite ricerche di Citti, relativizzando le sue contraddizioni come veniali sviste senili. Dopotutto un legame tra l’ubiqua Banda della Magliana e la vicenda dei negativi rubati sembra ormai emerso. L’anno scorso, sentito dalla Commissione antimafia, l’ex boss dei maglianesi Maurizio Abbatino, alias Er Crispino, ha ripetuto di aver partecipato al furto delle pellicole prima che la Banda fosse formata.
Di Pasolini aveva già parlato alla giornalista Raffaella Fanelli in un libro-intervista, La verità del Freddo (2018). Stando a Crispino, ora collaboratore di giustizia, il colpo sarebbe stato organizzato su commissione (di chi?) da un biscazziere della Magliana, certo Franco Conte, ormai ovviamente scomparso. Non solo. Abbatino ricorda anche di aver notato l’auto di Pasolini, un’Alfa Romeo Gt 2000, davanti alla bisca. Bene. Ma ammesso che le reminiscenze del Crispino siano attendibili, bastano a connettere furto/ricatto e omicidio? Allo stato, no.
Per concludere facciamo però un salto indietro. Primavera 1976: il grande colpo alla Technicolor è già dimenticato. Per le bobine non è stato sborsato alcun riscatto. I negativi mancanti sono stati “ricreati” grazie a potenti mezzi tecnici. Usciti indenni dal sequestro, i tre film hanno imboccato ognuno la propria strada: Un genio, due compari… di Damiani è stato campione d’incassi nel Natale ’75. Il Casanova di Fellini sbarcherà in sala nel dicembre successivo.
Quanto a Salò, appena uscito, nel gennaio ’76, venne sequestrato dalla censura. La sua damnatio durerà vent’anni. E arriviamo al 3 maggio ’76: PPP è morto ammazzato da sei mesi quando i giornali annunciano “Ritrovate le pizze dei film di Fellini, Pasolini e Damiani”. Ritrovate dove? Nel teatro 15 di Cinecittà, dentro alcuni scatoloni. Ritrovate quante? Ventiquattro, pare, sulle 74 sottratte. Di quali film? Non è dato sapere. Nei faldoni dell’Archivio Pasolini di Bologna la storia del furto finisce così, senza una fine, in dissolvenza.
Ma nel marzo 2022 un articolo della giornalista Simona Zecchi pubblicato sul settimanale Oggi riapriva l’affaire. Autrice di due libri approfonditi sul caso Pasolini (Massacro di un poeta, 2015, e L’inchiesta spezzata, 2020), Zecchi riportava la testimonianza dell’ex agente infiltrato Nicola Longo, che per la prima volta le rivelava: “Fui io nel 1976 a recuperare le pizze di quei film attraverso l’aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto, che per cercare di allentare un po’ la mia presa sulla banda, al tempo, mi disse che avrebbero fatto ritrovare le pellicole. Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini… per provarmi che stavano dicendo il vero. Così acconsentii: fecero ritrovare tutta la merce rubata, comprese le pizze di Salò, nell’armadio blindato da dove erano state rubate”.
Ascoltata dalla Commissione antimafia per il lavoro svolto sul delitto Pasolini, Simona Zecchi ci conferma le dichiarazioni a lei rilasciate da Longo che, letto il pezzo, lo ha giudicato corretto, ringraziandola via WhatsApp.
Però, raggiunto telefonicamente dal Venerdì, l’ex poliziotto fornisce una versione diversa di quel ritrovamento: “Con Salò di Pasolini io non c’entro niente. Non ne so nulla. Ho fatto recuperare solo i rulli del Casanova di Fellini”. In che modo? “Dati i miei contatti nel giro criminale, mi fu chiesto di mettermi alla ricerca del film. Nel sottobosco romano ormai sapevano che ero un agente e che ero a conoscenza di molte cose… Mi temevano… Così mi offrirono una soffiata su quelle pizze. Dissero: “Vai nei giardinetti vicino al Quirinale. C’è una fontanella, e accanto una mazzacane (una lastra, ndr) di Travertino. Sotto troverai una busta. Quando l’avrai recuperata richiamaci”. Andai. Nella busta c’era uno spezzone di film. Verificammo. Apparteneva al Casanova. Richiamai e mi indicarono dove ritrovare il resto delle bobine”.
Tutte o solo quelle di Fellini? “A me parlarono solo del Casanova”. Partecipò al recupero? “No, mi limitai a comunicare il luogo che mi era stato segnalato e che era quello giusto”. Quale? “Un armadio blindato all’Istituto Luce”. Armadio blindato? Istituto Luce? La stampa scrisse che le pizze furono rinvenute in uno studio di Cinecittà dentro scatoloni… “È possibile. Vede, una volta recuperate le pellicole, io mi disinteressai di quella storia. E, ripeto, di Salò non mi sono mai occupato”.
In seguito, Nicola Longo conobbe Fellini e divennero amici. Affascinato dalle imprese dell’ex Serpico e dai racconti che aveva pubblicato, il regista riminese meditò perfino di ricavarne un film che però rimase allo stato di progetto. A Longo – che nel frattempo è diventato criminologo e romanziere (il suo Macaone è stato candidato allo Strega 2022) – chiediamo: durante il sodalizio con Fellini rivelò al cineasta di aver contribuito al recupero del Casanova rubato? “No, mai”. E perché? “Non volevo ostentare, non volevo vantarmi”.
Insomma, su Salò e la “pizza connection” resta parecchio da chiarire. Chi preme per la riapertura delle indagini ritiene che ci sia ancora gente che sa e che potrebbe parlare. Molti altri pensano invece che l’omicidio Pasolini non sia più materia giudiziaria ma da libri di Storia. Libri di Storia, non romanzi fantasy. Evitiamo al Poeta questo ennesimo oltraggio.
FONTI…
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