Tutto considerato, il miracolo più stupefacente di Padre Pio è la capacità di sfuggire a ogni schema, infrangere allegramente ogni griglia interpretativa. Provate a immaginare, da un lato, un frate contadino, un francescano che da bambino non aveva potuto fare studi regolari perché lavorava la terra dei genitori a Pietrelcina, sulle colline del beneventano, alla fine dell’Ottocento, e già allora si sentiva in lotta con il Male, una lotta dolorosa sostenuta per decenni da una fede granitica e arcigna, per alcuni arcaica o antimoderna, stigmate e bilocazioni, guarigioni inspiegabili e precognizioni, profumo di gigli o di rose e febbre a 48 gradi, dialetto e mistero.
E dall’altra parte un cardinale domenicano poliglotta e cosmopolita, rampollo di un’antica famiglia dell’aristocrazia boema, teologo finissimo con studi nella sua Vienna, alla Sorbona di Parigi e a Ratisbona, forse il migliore allievo di Joseph Ratzinger, uno che cita Tommaso d’Aquino, Kierkegaard o Wittgenstein con la stessa naturalezza. Ecco, quando il cardinale Christoph von Schönborn riuscì finalmente a tornare sul Gargano, a San Giovanni Rotondo, ancora ricordava la volta che a sedici anni aveva assistito a una celebrazione di quell’uomo ormai anziano: «Non ho mai visto nessuno, né prete, né vescovo, né Papa, celebrare la Messa come faceva padre Pio: non come rito ma come realtà… Indimenticabile il momento della Consacrazione: Cristo stesso offerto nelle sue mani. Per tutta la Chiesa è stato e rimane un grande dono. In questa Europa un po’ indebolita nella sua vita cristiana, è una sorgente alla quale ancora ci abbeveriamo».
Sono passati venticinque anni da quando salì agli altari, beato dal 1999 e poi, nel 2002, santo. Eppure ci sono scaffali di libri nei quali l’immagine del santo più amato del Novecento, venerato da milioni di persone in tutto il mondo, continua ad alternarsi ai sospetti che lo hanno braccato per tutta la vita, anche e soprattutto dentro la Chiesa. Non ha avuto una vita facile, Francesco Forgione. Nato nel 1887, il 25 maggio, era entrato come novizio dei frati minori cappuccini a sedici anni e ne aveva trentuno quando, il 20 settembre 1918, apparvero le stimmate che avrebbero segnato il suo corpo per mezzo secolo, attirandogli devozione e disprezzo incondizionati. Quando Giovanni Paolo II lo proclamò beato, il 2 maggio 1999, ricordò «le prove che dovette sopportare in conseguenza, si direbbe, dei suoi singolari carismi: nella storia della santità talvolta accade che l’eletto, per una speciale permissione di Dio, sia oggetto di incomprensioni».
Per cinque volte Padre Pio venne messo sotto inchiesta dal Sant’Uffizio. Subì perquisizioni, interrogatori, intercettazioni, restrizioni e divieti di celebrare messa in pubblico. Pio XI e Giovanni XXIII lo consideravano con sospetto, diciamo così.
«Un falso mistico, una colossale truffa», tuonava ancora nel 1961 il domenicano francese Paul-Pierre Philippe, poi vescovo e cardinale, inviato da Papa Roncalli a interrogare il vecchio frate settantaquattrenne, «un disgraziato sacerdote che approfitta della sua reputazione di santo per ingannare le sue vittime», fino a scrivere nella relazione al Sant’Uffizio che si trattava della «più colossale truffa nella storia della Chiesa». Avevano pure forato le pareti delle stanze dove Padre Pio riceveva la gente per piazzare dei microfoni e registrare «il rumore di baci», accusandolo di «atti carnali» con le fedeli, e il vecchio frate si era dovuto difendere: «Non ho mai baciato una donna in vita mia, anzi dico davanti al Signore che neppure davo baci alla mamma».
Papa Giovanni temeva «un immenso inganno», un «disastro di anime», come annotava nei diari del 1960, ma si dice che poi si fosse lasciato convincere dal suo vecchio amico Andrea Cesarano, arcivescovo di Manfredonia, il quale gli aveva spiegato come i fedeli in effetti baciassero con fervore devoto le mani stigmatizzate del frate («chisto è o’ guanto mio!», lo si sente del resto dire in una registrazione) e insomma erano «tutte calunnie». Pochi anni dopo la morte del frate, Paolo VI si interrogava sulla fama di padre Pio con parole che erano già un riconoscimento: «Ma perché? Perché diceva la Messa umilmente, confessava dal mattino alla sera, ed era rappresentante stampato delle stimmate di Nostro Signore».
Karol Wojtyla non aveva mai avuto dubbi. Era un giovane prete che studiava a Roma, quando nel 1947 era andato a San Giovanni Rotondo e si era confessato da Padre Pio. Ne era nata la leggenda, più volte smentita da Giovanni Paolo II, che il frate gli avesse predetto l’elezione a Papa e l’attentato di Ali Agca, «non è vero niente». Ma non era questo il punto, per Wojtyla. È curioso come la fama dei prodigi, più che dai fedeli, sia stata talvolta enfatizzata dai detrattori, per deriderla, o magari alimentata da chi sfruttava l’immagine del frate per business da rotocalco o battaglie ideologiche.
Karol Wojtyla non aveva mai avuto dubbi. Era un giovane prete che studiava a Roma, quando nel 1947 era andato a San Giovanni Rotondo e si era confessato da Padre Pio. Ne era nata la leggenda, più volte smentita da Giovanni Paolo II, che il frate gli avesse predetto l’elezione a Papa e l’attentato di Ali Agca, «non è vero niente». Ma non era questo il punto, per Wojtyla. È curioso come la fama dei prodigi, più che dai fedeli, sia stata talvolta enfatizzata dai detrattori, per deriderla, o magari alimentata da chi sfruttava l’immagine del frate per business da rotocalco o battaglie ideologiche.
Perché l’essenziale stava altrove, come diceva Giovanni Paolo II nel giorno della beatificazione, attingendo alla propria esperienza personale: «Chi si recava a san Giovanni Rotondo per partecipare alla sua Messa, per chiedergli consiglio o confessarsi, scorgeva in lui un’immagine viva del Cristo sofferente e risorto». Tre anni più tardi, il 16 giugno 2002, fu lo stesso Wojtyla a proclamarlo santo: in piazza c’era anche Matteo Pio, un bambino di nove anni che due anni prima era arrivato in condizioni disperate alla Casa Sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo – l’ospedale voluto e inaugurato da Padre Pio nel 1956 -, poche ore di vita come diagnosi dei medici, meningite fulminante, arresto cardiaco, complicanze in nove organi che dopo qualche giorno riprendono a funzionare finché il bimbo si sveglia e dice «voglio il gelato»: la guarigione inspiegabile, riconosciuta dalla Chiesa come miracolo per intercessione del beato, che ha portato alla canonizzazione.
Per il popolo dei fedeli era santo da decenni. Tutto era cominciato in quella fine d’estate del 1918, poche settimane prima che finisse la Grande Guerra, nel convento di San Giovanni Rotondo, dov’era arrivato nel 1916 e sarebbe rimasto tutta la vita. Padre Pio si era segnato quel giorno: 20 settembre. Tre anni più tardi lo aveva dovuto raccontare nei dettagli agli inquisitori del Sant’Uffizio. Otto giorni di indagini e interrogatori al frate e ai confratelli, nel giugno 1921. La Messa, il tremore, la visione del Crocifisso. «Udii questa voce: ti associo alla mia Passione…E ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava sangue». Gli inquisitori gli chiesero tutto: le febbri a temperature letali, i dolori e le lotte notturne col diavolo, il profumo di fiori, le bilocazioni che lo facevano essere in convento, raccontava, e insieme accanto al letto di un malato, «io non so come sia, né di che natura la cosa, né molto meno ci do peso, ma mi è occorso di avere presente questa o quell’altra persona, questo luogo o quell’altro luogo; non so se la mente si sia trasportata lì o qualche rappresentazione del luogo o della persona si sia presentata a me, non so se col corpo o senza il corpo io sia stato presente…».
I fedeli avevano cominciato ad affluire nel Gargano, attirati dalla fama di santità. Le gerarchie osservavano con sospetto. Un’autorità come padre Agostino Gemelli, frate minore francescano e medico, che nel 1921 aveva fondato l’università Cattolica e l’anno prima era andato un giorno ad incontrare padre Pio, arrivò a scrivere al Sant’Uffizio che si trattava di «uno psicopatico ignorante che induce in automutilazione e si procura artificialmente le stigmate allo scopo di sfruttare la credulità della gente». Pure gli inquisitori avevano chiesto al frate della boccetta di acido fenico che si era procurato in farmacia, gli stessi dubbi che lo storico Sergio Luzzatto avrebbe riproposto nella sua biografia del 2007. Ma già allora il frate aveva spiegato che l’acido in convento era usato per disinfettare le siringhe, erano i mesi in cui l’influenza spagnola faceva strage, e del resto anche ai sospetti degli scettici sono state opposte obiezioni, a cominciare dal fatto che né l’acido fenico né la polvere veratrina avrebbero potuto procurare quel tipo di lesioni, durate cinquant’anni.
In tutto questo tempo, il frate di Pietrelcina ha continuato a dormire pochissimo, svegliarsi nel cuore della notte per pregare e prepararsi alla Messa prima dell’alba, passare fino a sedici ore al giorno a confessare i fedeli. Papa Francesco lo ha definito un «apostolo del confessionale». Nel 2018, a cent’anni dalla comparsa delle stimmate e cinquanta dalla morte del frate, andò nello stesso giorno a Pietrelcina e a San Giovanni Rotondo: «Questo umile frate cappuccino ha stupito il mondo con la sua vita tutta dedita alla preghiera e all’ascolto paziente dei fratelli, sulle cui sofferenze riversava come balsamo la carità di Cristo». Padre Pio non era un confessore facile, «sciagurato, tu vai all’inferno!, ma la gente restava in coda dalla notte. Il primo Papa ad andare a San Giovanni Rotondo, nel 2008, era stato Benedetto XVI.
Quel giorno, Benedetto XVI parlò del Getsemani e della Passione: «Alcuni Santi hanno vissuto intensamente e personalmente questa esperienza di Gesù. Padre Pio da Pietrelcina è uno di loro. Un uomo semplice, di origini umili, “afferrato da Cristo” – come scrive di sé l’apostolo Paolo – per farne uno strumento eletto del potere perenne della sua Croce: potere di amore per le anime, di perdono e di riconciliazione, di paternità spirituale, di solidarietà fattiva con i sofferenti. Le stigmate, che lo segnarono nel corpo, lo unirono intimamente al Crocifisso-Risorto. Autentico seguace di san Francesco d’Assisi, fece propria, come il Poverello, l’esperienza dell’apostolo Paolo, così come egli la descrive nelle sue Lettere: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me».