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Italvolley scrive la storia

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Generazione di fenomene! La nazionale italiana di volley femminile scrive la storia: Egonu e compagne schiantano gli Usa 3-0 (25-17; […]

Generazione di fenomene! La nazionale italiana di volley femminile scrive la storia: Egonu e compagne schiantano gli Usa 3-0 (25-17; 25-20; 25-17) e conquistano il loro primo titolo olimpico: è la dodicesima medaglia d’oro per l’Italia ai Giochi di Parigi.

Il ct Julio Velasco riesce finalmente a conquistare l’alloro olimpico (dopo l’argento con l’Italvolley maschile a Atlanta ’96) e corona una carriera meravigliosa: ha vinto tutto tra club e nazionale. Le sue massime sono entrate nel linguaggio dello sport: “I vincenti trovano soluzioni, i perdenti cercano alibi”; “Chi vince festeggia, chi perde spiega”. E per la prima volta nella storia delle Olimpiadi sono le pallavoliste azzurre a festeggiare.

Poco prima dell’Olimpiade, è morto il fratello maggiore di Julio Velasco. Si chiamava Raul, aveva 78 anni, e Julio gli era legatissimo. Insieme all’altro fratello, Luis, anche lui scomparso, avevano attraversato gli orrori della dittatura militare dell’Argentina degli anni Settanta, una galleria di disumanità che si può riassumere così: gli uomini del generale Videla e dell’ammiraglio Massera ordinavano di sequestrare gli oppositori del regime, li facevano torturare e poi caricare narcotizzati su aerei che, in alta quota, aprivano i portelloni, per scaraventare nell’Oceano questi corpi inermi.

I voli della morte, migliaia di desaparecidos, di gente sparita in mare aperto. Julio Velasco, c.t. dell’Italia donne di pallavolo che si gioca l’oro contro gli Usa, viene da lì, da una delle più grandi tragedie del Novecento. Luis, il fratello di Julio e Raul Velasco, venne rapito dalla sbirraglia della giunta. Gli riservarono il trattamento standard. Un prete gli era vicino durante le sevizie, Luis rantolò una frase: “Padre, come si sente nel partecipare a questa schifezza?”. Il sacerdote se ne andò. La tempra dei Velasco. Luis venne restituito alla famiglia, altri amici no.

Velasco allenava i bambini del minivolley del Ferro Carril Oeste, una polisportiva di Buenos Aires. Tutto è cominciato in quei sotterranei che ospitavano i mini-allenamenti. Velasco lavorava come precettore in un liceo, poi gli tolsero l’incarico per ragioni politiche. La pallavolo come salvezza: diventato tecnico del Ferro Carril dei grandi, vinse campionati, lo chiamarono in nazionale come vice e nel 1983, in coincidenza con il ritorno della democrazia, accettò un’offerta dall’Italia, per allenare la squadra di Jesi, nelle Marche.

“Presi casa a Pianello Valesina, un paese di 10mila abitanti – ha raccontato -, ma io venivo da Buenos Aires, una metropoli da 12 milioni di abitanti. Non è stato facile”. Velasco ha poi vinto tutto, tra club e nazionali. Gli manca soltanto l’oro olimpico sfumato ad Atlanta 1996 quando allenava l’Italia dei maschi e dovette accontentarsi dell’argento, ma non vuole parlarne: per lui il passato non esiste.

il metodo velasco— Un allenatore psicologo. Schemi e mente. Velasco da sempre lavora sulle teste dei suoi giocatori. Nella sua autobiografia “Senza rete”, Maurizia Cacciatori scrive di Velasco c.t. dell’Italia femminile tra il 1997 e il 1998: “Poi Julio entra a gamba tesa sulla nostra autostima. Ci mostra le immagini di una partita persa contro le forti cubane.

Ci esorta a osservare le nostre avversarie. Hanno sguardi indolenti. Masticano enormi bubble gum con l’espressione di chi sta in fila al supermercato. Giocano senza impegno, ci osservano come se fossimo nanetti di marmo piazzati nel loro giardinetto. E ci battono. Così viene percepita l’Italia femminile ai grandi tornei, poco più di un allenamento prima delle partite vere”.

Da lì, cambierà tutto. Sono di Velasco frasi entrate nel linguaggio dello sport: “I vincenti trovano soluzioni, i perdenti cercano alibi”; “Chi vince festeggia, chi perde spiega”. Nella sua vita sportiva, Velasco non si è negato nulla. Ha provato a lavorare nel calcio, d.g, alla Lazio e responsabile dell’area fisico-atletica all’Inter, con Lippi.

Ha allenato la Repubblica Ceca e la Spagna, è ritornato in Argentina, è volato nell’Iran della teocrazia degli ayatollah. “Sono nell’antica Persia – disse in un’intervista -, una delle culture più importanti del mondo. E sono felice di conoscere da vicino l’Islam. Non ho mai mischiato sport e politica. Non dimenticate che la nazionale rappresenta il Paese e non il governo. Io siedo in panchina”. Il divieto di alcolici non era un problema: “Io sono astemio”.

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