Franco Battiato definiva Juri Camisasca «un autore di vera musica sacra». I due hanno condiviso fondamenti, orizzonti e dimensioni: il mistero insondabile della vita, la ricerca interiore, la musica, la pittura, il silenzio. Nel testo di “Nomadi”, fra i brani più belli e identitari di Camisasca, che spesso si ricorda nella versione di Battiato, figurano tracce dello sguardo e della direzione spirituale di entrambi gli artisti, sempre riservati nel loro privato; per esempio, il riferimento al «transito dell’apparente dualità». Per molti anni, Battiato è stato protagonista della musica italiana, che con rara voglia di sperimentare e apertura mentale ha saputo innovare nella lingua, nei ritmi, negli arrangiamenti e più in generale nei concetti. Sia per Battiato che per il suo amico e coautore Camisasca, non si può scindere l’uomo dall’artista né si riescono a disgiungere le idee e sensibilità personali dalla struttura e dai contenuti delle loro canzoni. La musica contemporanea è invece spesso regolata dalle leggi spietate del mercato, finanche prodotta da applicazioni basate su algoritmi costruiti sull’analisi di mode, gusti e tendenze dominanti. La musica dà una misura precisa delle sempre più rapide trasformazioni economiche, politiche, culturali, antropologiche e sociali in atto. Ne parliamo con Camisasca, cui diamo del Tu perché lo conosciamo.
In che epoca viviamo?
«È un caos. Io seguo in maniera trasversale quello che succede nel mondo, ma mi sembra che tutti i grandi propositi di pace e di fratellanza si stiano frantumando. Ci sono guerre che sembrano non finire più e siamo nelle mani di pazzi, praticamente. Il mondo è governato da gente che ha un ego smisurato. Sono soggetti malati, combattono per un pezzo di terra e uccidono le persone come se fossero birilli. È un mondo allucinante, se visto in questo senso. Tu apri il computer – io ne uso uno come mezzo di informazione – e ogni volta leggi notizie raccapriccianti».
Allora è un mondo condizionato dal capitalismo, orientato dall’egoismo, dall’accumulo di beni? Anche la musica si è adeguata e, paradossalmente, non è più impegnata né in grado di parlare all’anima?
«Regna il capitalismo spinto. C’è da dire che ogni musica tende a riflettere il proprio tempo. Negli anni ’70 esistevano gruppi come i Genesis, i Van der Graaf Generator, i Jethro Tull, cioè tutta gente che suonava. Per carità, adesso ci sono ancora, ad esempio, gruppi come gli U2, che sanno il fatto loro. Ma il punto vero è che la tecnologia è diventata dominante e funzionale al mercato. Ci sono app che fanno le canzoni. Se tu dai degli input, queste applicazioni ti scrivono il testo e ti scrivono anche la musica, ti mettono gli accordi e così via. In effetti, quando vado al supermercato o in qualche altra parte, sento brani musicali identici, tutti con lo stesso suono. Non esiste più ricerca musicale e la volgarità è imperante. Il rap è stata la vera rovina. Magari tanti ragazzi che si danno a questo genere non sanno cantare e vanno in crisi, se gli fai intonare una melodia. Se gli togli l’Auto-Tune, intendo dire, diventa un problema. Con questo tipo di sistema, tutti possono cantare. Però diventa un disastro se il software va in tilt, come successo tempo fa. Queste tecnologie stanno rovinando anche il gusto di creare e la creatività in sé».
Quanto è importante il canto?
«Cantare è innato nell’uomo, è piacevole. Se canti, è perché stai bene oppure perché hai voglia di stare bene. Una persona che sta male non canta. Se sei triste, il canto ti aiuta anche a trovare un po’ di serenità. Cantare ti consente di esprimere una parte di te che sul piano razionale non puoi manifestare. Il canto è l’elemento di comunione e di comunicazione per eccellenza. Il pensiero e la razionalità dell’uomo hanno dei limiti. Con il canto, invece, generi e trasmetti emozioni all’esterno, quando è fatto in una certa maniera. Molti ragazzi, invece, esprimono soltanto rabbia, quando cantano. C’è molta rabbia nelle musiche dei rapper. È raro, oggigiorno, ascoltare un canto alla Leonard Cohen, che parli all’anima e sia poesia. Ecco, oggi non c’è più poesia e i testi delle canzoni sono spesso di una violenza e di una volgarità indefinibili».
La contemporaneità è segnata dal caos e del rumore. A un certo punto, però, tu hai deciso di sganciarti, di condurre una vita eremitica pur mantenendo la tua presenza artistica.
«La musica e il lavoro di iconografia cui mi dedico sono in realtà di contorno al vero impegno della mia vita, che è la ricerca interiore. Prima di tutto, io sono un uomo di silenzio, un uomo che cerca di dare un senso al proprio esistere, che è un baleno. La nostra vita è un attimo. Che cosa è questo flash che stiamo vivendo? Veniamo da non si sa dove, prima non c’eravamo e poi non ci saremo. Ora, che cosa è questo attimo che noi chiamiamo “esistenza”, che può durare 20, 50, 70, 90, 100 anni, cioè niente in rapporto all’eternità? È questo ciò che mi interessa. Io conduco una ricerca interiore, consapevole che finché si cerca non si trova. Allora si tratta di lasciar decantare tutto un sistema di intellettualismo che ci opprime, affinché sia il silenzio a darci la risposta su ciò che siamo. In effetti, quando si vive una vita di silenzio e di solitudine come la vivo io, ci sono momenti in cui si ha come una sorta di apertura, una specie di conoscenza che è trascendente. Lì ti rendi conto di chi sei realmente e sperimenti un’espressione della vita unica».
Che cosa ne ricavi?
«A me interessa questo. Poi, quale sia il beneficio non importa. Non so perché io abbia compiuto questa scelta; noi veniamo portati in certo modo a delle scelte. Personalmente, non so fino a che punto la mia vita possa essere utile agli altri. Tuttavia, le persone che incontro avvertono, credo, che io vivo in una dimensione diversa».
Quanto è difficile, Juri, seguire la strada del silenzio, in un mondo, in un tempo in cui il rumore sembra camminare insieme al vuoto?
«Per me non è difficile. C’è un motto secondo cui tu devi avere la capacità di mantenere il silenzio e la solitudine anche se vivi in una metropoli, anche se vai in una grande città. Io vivo in solitudine e silenzio alle pendici dell’Etna. È da 30 anni che sono qui da eremita, e prima sono stato per 11 anni in una comunità, in un monastero. Segui un cammino perché hai avuto delle indicazioni, è la vocazione. Io affronto con coraggio questa mia esperienza e sento che la provvidenza mi sta facendo percorrere un cammino. Allora non mi sento mai da solo, ma mi sento in comunione con la vita».
L’emancipazione dall’incubo delle passioni è il tuo punto in comune con Franco Battiato?
«Le passioni si staccano nel momento in cui hai un’esperienza spirituale. Franco ha avuto il suo percorso, io sto facendo il mio. Finché la passione resta un incubo, vuol dire che ancora ti condiziona. Emanciparsi dall’incubo delle passioni è un passo automatico che viene senza sforzo, quando ti dedichi seriamente alla meditazione, alla quiete mentale. Adesso bisognerebbe fare un discorso molto lungo, alla ricerca del sé, di quel sé che non è Dio ma è il sé di Meister Eckhart e di Ramana Maharshi,
il sé che ti permette di esistere. Mi riferisco al silenzio, tu ci entri in contatto e basta una goccia di questo nettare e la vita diventa un’altra cosa. Quindi per me non è assolutamente difficile condurre una vita silenziosa. Anzi, a volte non capisco come possano gli altri vivere nel caos; certe volte mi chiedo come si faccia a vivere nella confusione, a non prendere le distanze dal rumore e dal disordine».
Quanto ti manca Franco Battiato? Per inciso, oggi si ascoltano indistintamente artisti come Battiato e De Andrè e cantanti di immagine come Achille Lauro e Rosa Chemical. Tutto e tutti sullo stesso piano, insomma, in nome dell’abbondanza delle merci, che poi viene ricompresa nel concetto di democrazia.
«Oggi non si ascolta più la musica, diventata un sottofondo per mangiare la pizza o per fare altro. Di Franco si sentono di solito i brani più commerciali, tipo “Bandiera bianca”. È difficile che si ascolti, per esempio, “L’oceano di silenzio”. Non riesco a quantificarti quanto mi manchi Franco. Eravamo molto in simbiosi e a volte mi sento solo, quando penso a lui. Se avverto il bisogno di parlare con qualcuno, allora Franco mi manca e come, anche se sono immerso in una solitudine mistica. Da un punto di vista artistico, poi, Franco ha lasciato un vuoto incolmabile».
Si ascolta soltanto se stessi, dunque?
«Non c’è più educazione all’ascolto, questo è il tema. L’educazione all’ascolto diventa, poi, anche educazione all’ascolto della musica. Nel presente la musica è perlopiù un sottofondo che si sente nei bar, nei supermercati e così via. Chi si mette ad ascoltare un corale di Bach? La gente non ha tempo; ormai c’è una frenesia totalizzante, perciò bisogna rallentare».
Fretta, rumore e confusione. Di contro, vita eremitica e ricerca del sé. Ma come si fa a tenere i rapporti con il mondo, a intervenire per cambiarlo, migliorarlo?
«Come potrei essere utile, con la mia vita, a questo mondo? Che segnali mando agli altri, io che vivo qui nella solitudine? Io vivo nella solitudine ma sento tutto il peso del mondo, e questo gli altri non lo sanno. Che cosa stanno facendo quelli che vivono insieme e conducono battaglie? Spesso, purtroppo, si fanno male tra di loro. Qual è la loro utilità? Dalle loro battaglie che cosa ricavano? C’è un detto di Evagrio Pontico secondo cui l’eremita è colui che vive separato da tutti ma è unito con tutti. Io sento il dramma del mondo e credo che questo sentire il dramma dell’umanità, in un certo qual modo, è come se mi portasse a neutralizzarlo in un’altra maniera, come se fossi una carta assorbente».
Cioè?
«Ci sono persone che si impegnano nella creazione del male e mettono disordine. Ci sono persone, invece, che, conducendo una vita tranquilla, cercano di equilibrare quel disordine. Noi a volte diamo forse un po’ tutto per scontato, a partire dai nostri gesti quotidiani. Ma c’è un universo che si esprime in molteplici facce. La vita è sempre un mistero, come lo è il problema delle guerre. C’è un passo biblico, di Isaia, in cui il Signore afferma di portare la pace e di scatenare anche la guerra. Secondo Gurdjieff, di cui conosci la filosofia, siamo come delle macchine. Allora il male nel mondo emerge perché, evidentemente, ci sono delle forze, delle entità che governano chi gestisce il potere. Perciò, siccome stiamo nel mistero, io vivo il mistero di questa esistenza sulle tracce che essa ha segnato per me. Ora, io non so in che maniera posso essere utile; penso che la mia vita possa essere anche inutile, ma sono anche a contatto con delle persone. Non ho la popolarità di Vasco Rossi ma, un po’ come santa Teresina del Bambino Gesù, sono una piccola fiammella che magari cerca di accenderne un’altra e così via».
Che cosa intendevi dire, nel tuo brano “Il sole nella pioggia”, cantato anche da Alice, con l’espressione «quelli che sanno le cose non parlano»?
«Il mistero della vita è talmente grande che tu, da un punto di vista razionale, non lo puoi esprimere mai. Non ci riesci perché non hai strumenti, non hai il vocabolario, ti manca la parola per dire ciò che effettivamente senti e vivi. La vita è un mistero insondabile. E la nostra Terra è un granellino di sabbia in una distesa sterminata di pianeti. Allora l’unica salvezza è meditare, ma senza arrivare a conclusioni filosofiche. Con la filosofia ci si può ingarbugliare; con la meditazione riusciamo a ottenere una mente tranquilla, serena, libera, capace di meravigliarsi della natura, dell’altro, dell’attimo. Ecco il senso della poesia, della vita, che dobbiamo recuperare. Lo scienziato vede una pesca e la analizza chimicamente. Il mistico, invece, la prende, la mangia e la gusta».
Qual è la tua speranza per il futuro comune?
«La mia speranza è legata a un pensiero, espresso in modi diversi da san Paolo, Sri Aurobindo e Pierre Teilhard de Chardin, che poi ho inserito nel brano “Il sole nella pioggia”. Mi riferisco alla frase «l’universo geme nelle doglie del parto». Ora, riguardo a questo universo, chiamiamolo Terra per semplificare, possiamo leggere un’evoluzione in atto, che include anche la guerra. Può darsi, cioè, che i fatti tragici stiano accadendo perché devono essere parte di una trasformazione profonda. La mia speranza è, dunque, che ci sia un mondo di pace. A volte, però, ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio. E non ho le risposte, ma mi sento come una formica che vive in questo mondo. Attenzione, per me si tratta di una condizione di crescita, ma mi cadono le braccia quando accendo il computer e vedo guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto».
Guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto che entrano nella musica?
«Certo. Tu prendi Sanremo, che io non guardo più da almeno 20 anni. Apri il computer e trovi subito le notizie del Festival, poi vai su YouTube e ascolti i brani, che con la musica non c’entrano più niente. Lì fai successo se crei scandalo con la tua immagine, se produci audience. La canzone è invece un orpello». (redazione@corrierecal.it)
Quanto è importante il canto?
«Cantare è innato nell’uomo, è piacevole. Se canti, è perché stai bene oppure perché hai voglia di stare bene. Una persona che sta male non canta. Se sei triste, il canto ti aiuta anche a trovare un po’ di serenità. Cantare ti consente di esprimere una parte di te che sul piano razionale non puoi manifestare. Il canto è l’elemento di comunione e di comunicazione per eccellenza. Il pensiero e la razionalità dell’uomo hanno dei limiti. Con il canto, invece, generi e trasmetti emozioni all’esterno, quando è fatto in una certa maniera. Molti ragazzi, invece, esprimono soltanto rabbia, quando cantano. C’è molta rabbia nelle musiche dei rapper. È raro, oggigiorno, ascoltare un canto alla Leonard Cohen, che parli all’anima e sia poesia. Ecco, oggi non c’è più poesia e i testi delle canzoni sono spesso di una violenza e di una volgarità indefinibili».
La contemporaneità è segnata dal caos e del rumore. A un certo punto, però, tu hai deciso di sganciarti, di condurre una vita eremitica pur mantenendo la tua presenza artistica.
«La musica e il lavoro di iconografia cui mi dedico sono in realtà di contorno al vero impegno della mia vita, che è la ricerca interiore. Prima di tutto, io sono un uomo di silenzio, un uomo che cerca di dare un senso al proprio esistere, che è un baleno. La nostra vita è un attimo. Che cosa è questo flash che stiamo vivendo? Veniamo da non si sa dove, prima non c’eravamo e poi non ci saremo. Ora, che cosa è questo attimo che noi chiamiamo “esistenza”, che può durare 20, 50, 70, 90, 100 anni, cioè niente in rapporto all’eternità? È questo ciò che mi interessa. Io conduco una ricerca interiore, consapevole che finché si cerca non si trova. Allora si tratta di lasciar decantare tutto un sistema di intellettualismo che ci opprime, affinché sia il silenzio a darci la risposta su ciò che siamo. In effetti, quando si vive una vita di silenzio e di solitudine come la vivo io, ci sono momenti in cui si ha come una sorta di apertura, una specie di conoscenza che è trascendente. Lì ti rendi conto di chi sei realmente e sperimenti un’espressione della vita unica».
Che cosa ne ricavi?
«A me interessa questo. Poi, quale sia il beneficio non importa. Non so perché io abbia compiuto questa scelta; noi veniamo portati in certo modo a delle scelte. Personalmente, non so fino a che punto la mia vita possa essere utile agli altri. Tuttavia, le persone che incontro avvertono, credo, che io vivo in una dimensione diversa».
Quanto è difficile, Juri, seguire la strada del silenzio, in un mondo, in un tempo in cui il rumore sembra camminare insieme al vuoto?
«Per me non è difficile. C’è un motto secondo cui tu devi avere la capacità di mantenere il silenzio e la solitudine anche se vivi in una metropoli, anche se vai in una grande città. Io vivo in solitudine e silenzio alle pendici dell’Etna. È da 30 anni che sono qui da eremita, e prima sono stato per 11 anni in una comunità, in un monastero. Segui un cammino perché hai avuto delle indicazioni, è la vocazione. Io affronto con coraggio questa mia esperienza e sento che la provvidenza mi sta facendo percorrere un cammino. Allora non mi sento mai da solo, ma mi sento in comunione con la vita».
L’emancipazione dall’incubo delle passioni è il tuo punto in comune con Franco Battiato?
«Le passioni si staccano nel momento in cui hai un’esperienza spirituale. Franco ha avuto il suo percorso, io sto facendo il mio. Finché la passione resta un incubo, vuol dire che ancora ti condiziona. Emanciparsi dall’incubo delle passioni è un passo automatico che viene senza sforzo, quando ti dedichi seriamente alla meditazione, alla quiete mentale. Adesso bisognerebbe fare un discorso molto lungo, alla ricerca del sé, di quel sé che non è Dio ma è il sé di Meister Eckhart e di Ramana Maharshi,
il sé che ti permette di esistere. Mi riferisco al silenzio, tu ci entri in contatto e basta una goccia di questo nettare e la vita diventa un’altra cosa. Quindi per me non è assolutamente difficile condurre una vita silenziosa. Anzi, a volte non capisco come possano gli altri vivere nel caos; certe volte mi chiedo come si faccia a vivere nella confusione, a non prendere le distanze dal rumore e dal disordine».
Quanto ti manca Franco Battiato? Per inciso, oggi si ascoltano indistintamente artisti come Battiato e De Andrè e cantanti di immagine come Achille Lauro e Rosa Chemical. Tutto e tutti sullo stesso piano, insomma, in nome dell’abbondanza delle merci, che poi viene ricompresa nel concetto di democrazia.
«Oggi non si ascolta più la musica, diventata un sottofondo per mangiare la pizza o per fare altro. Di Franco si sentono di solito i brani più commerciali, tipo “Bandiera bianca”. È difficile che si ascolti, per esempio, “L’oceano di silenzio”. Non riesco a quantificarti quanto mi manchi Franco. Eravamo molto in simbiosi e a volte mi sento solo, quando penso a lui. Se avverto il bisogno di parlare con qualcuno, allora Franco mi manca e come, anche se sono immerso in una solitudine mistica. Da un punto di vista artistico, poi, Franco ha lasciato un vuoto incolmabile».
Si ascolta soltanto se stessi, dunque?
«Non c’è più educazione all’ascolto, questo è il tema. L’educazione all’ascolto diventa, poi, anche educazione all’ascolto della musica. Nel presente la musica è perlopiù un sottofondo che si sente nei bar, nei supermercati e così via. Chi si mette ad ascoltare un corale di Bach? La gente non ha tempo; ormai c’è una frenesia totalizzante, perciò bisogna rallentare».
Fretta, rumore e confusione. Di contro, vita eremitica e ricerca del sé. Ma come si fa a tenere i rapporti con il mondo, a intervenire per cambiarlo, migliorarlo?
«Come potrei essere utile, con la mia vita, a questo mondo? Che segnali mando agli altri, io che vivo qui nella solitudine? Io vivo nella solitudine ma sento tutto il peso del mondo, e questo gli altri non lo sanno. Che cosa stanno facendo quelli che vivono insieme e conducono battaglie? Spesso, purtroppo, si fanno male tra di loro. Qual è la loro utilità? Dalle loro battaglie che cosa ricavano? C’è un detto di Evagrio Pontico secondo cui l’eremita è colui che vive separato da tutti ma è unito con tutti. Io sento il dramma del mondo e credo che questo sentire il dramma dell’umanità, in un certo qual modo, è come se mi portasse a neutralizzarlo in un’altra maniera, come se fossi una carta assorbente».
Cioè?
«Ci sono persone che si impegnano nella creazione del male e mettono disordine. Ci sono persone, invece, che, conducendo una vita tranquilla, cercano di equilibrare quel disordine. Noi a volte diamo forse un po’ tutto per scontato, a partire dai nostri gesti quotidiani. Ma c’è un universo che si esprime in molteplici facce. La vita è sempre un mistero, come lo è il problema delle guerre. C’è un passo biblico, di Isaia, in cui il Signore afferma di portare la pace e di scatenare anche la guerra. Secondo Gurdjieff, di cui conosci la filosofia, siamo come delle macchine. Allora il male nel mondo emerge perché, evidentemente, ci sono delle forze, delle entità che governano chi gestisce il potere. Perciò, siccome stiamo nel mistero, io vivo il mistero di questa esistenza sulle tracce che essa ha segnato per me. Ora, io non so in che maniera posso essere utile; penso che la mia vita possa essere anche inutile, ma sono anche a contatto con delle persone. Non ho la popolarità di Vasco Rossi ma, un po’ come santa Teresina del Bambino Gesù, sono una piccola fiammella che magari cerca di accenderne un’altra e così via».
Che cosa intendevi dire, nel tuo brano “Il sole nella pioggia”, cantato anche da Alice, con l’espressione «quelli che sanno le cose non parlano»?
«Il mistero della vita è talmente grande che tu, da un punto di vista razionale, non lo puoi esprimere mai. Non ci riesci perché non hai strumenti, non hai il vocabolario, ti manca la parola per dire ciò che effettivamente senti e vivi. La vita è un mistero insondabile. E la nostra Terra è un granellino di sabbia in una distesa sterminata di pianeti. Allora l’unica salvezza è meditare, ma senza arrivare a conclusioni filosofiche. Con la filosofia ci si può ingarbugliare; con la meditazione riusciamo a ottenere una mente tranquilla, serena, libera, capace di meravigliarsi della natura, dell’altro, dell’attimo. Ecco il senso della poesia, della vita, che dobbiamo recuperare. Lo scienziato vede una pesca e la analizza chimicamente. Il mistico, invece, la prende, la mangia e la gusta».
Qual è la tua speranza per il futuro comune?
«La mia speranza è legata a un pensiero, espresso in modi diversi da san Paolo, Sri Aurobindo e Pierre Teilhard de Chardin, che poi ho inserito nel brano “Il sole nella pioggia”. Mi riferisco alla frase «l’universo geme nelle doglie del parto». Ora, riguardo a questo universo, chiamiamolo Terra per semplificare, possiamo leggere un’evoluzione in atto, che include anche la guerra. Può darsi, cioè, che i fatti tragici stiano accadendo perché devono essere parte di una trasformazione profonda. La mia speranza è, dunque, che ci sia un mondo di pace. A volte, però, ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio. E non ho le risposte, ma mi sento come una formica che vive in questo mondo. Attenzione, per me si tratta di una condizione di crescita, ma mi cadono le braccia quando accendo il computer e vedo guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto».
Guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto che entrano nella musica?
«Certo. Tu prendi Sanremo, che io non guardo più da almeno 20 anni. Apri il computer e trovi subito le notizie del Festival, poi vai su YouTube e ascolti i brani, che con la musica non c’entrano più niente. Lì fai successo se crei scandalo con la tua immagine, se produci audience. La canzone è invece un orpello».