“SONO STATO OMOSESSUALE NELLA MIA VITA” – LUCA BARBARESCHI SENZA FRENI SFANCULA IL METOO ALL’ITALIANA E RACCONTA DELLE VIOLENZE SUBITE DA PICCOLO: “LE ATTRICI CHE DENUNCIANO LE MOLESTIE? ALCUNE DI QUESTE SI PRESENTAVANO DA ME SEDENDO A GAMBE LARGHE. CERCANO SOLO PUBBLICITA’” – “SONO STUFO DEL POLITICALLY CORRECT. SE DICO ‘GUARDA CHE MIGNOTTONE’, I MIEI FIGLI MI RISPONDONO ‘NO, PAPÀ, È UNA RAGAZZA CHE SOFFRE’” – “MI HANNO ABUSATO DAGLI 8 AGLI 11 ANNI I PRETI GESUITI A MILANO: MI CHIUDEVANO IN UNA STANZA, UNO MI TENEVA FERMO E L’ALTRO MI VIOLENTAVA…”…
Villa Torlonia, mattina presto. Il retropalco del teatro è aperto sul parco, una grande bandiera americana sventola davanti a un gigantesco green screen. Luca Barbareschi, 66 anni, pantaloncini e giubbotto di pelle, è pronto per girare la scena finale di The penitent, di cui è regista e protagonista, al fianco dell’inglese Catherine McCormack. Tratto dalla pièce omonima di David Mamet, il film racconta di uno psichiatra la cui vita e carriera deragliano quando un suo paziente uccide otto persone.
Il personaggio è ispirato alla storia di una figura controversa come quella dello psicologo canadese Jordan Peterson?
“Sì, un genio che è stato attaccato ferocemente perché si rifiuta di dire che c’è un terzo sesso. Io trovo che abbia ragione: è un medico e non può prescindere dal fatto che i cromosomi sono quelli. Poi io posso vestirmi da donna, mettere i tacchi, posso riconoscere il ruolo di trans e Lgbt, ma non farmi dire che c’è un terzo sesso. Nel nostro film lo psichiatra viene linciato perché un giovane paziente gli annuncia una strage e poi uccide otto persone. La stampa dapprima si concentra sul ragazzo, ma poi è ispanico, vittima della società, è gay, emarginato, quindi forse non è più colpevole. La stampa per vendere ha bisogno di un mostro e di una vittima, così il mostro diventa lo psichiatra, complice una pubblicazione in cui aveva scritto che l’omosessualità è un adattamento. Per me ci sta: io sono stato omosessuale nella mia vita, forse ho trovato un adattamento alle mie problematiche. La stampa lo traduce come ‘aberrazione’. Scoppia il casino, il bazooka si gira verso di lui, inizia la tragedia di un uomo che viene linciato dalla stampa. Un’ondata di finto moralismo distrugge l’America, quella che io sognavo – i miei figli hanno la green card – non c’è più: si sono incastrati in qualcosa in cui non usciranno facilmente. Nei prossimi anni succederà anche in Europa. I miei figli cresciuti nelle università americane non hanno più senso dell’umorismo. Se dico ‘guarda che mignottone’ rispondono ‘no, papà, è una ragazza che soffre'”.
Il suoi figli la contestano, quindi.
“Sì. Soprattutto quella di dodici anni, che è andata alle scuole francesi, politicamente corretta. Io mi incazzo ma manteniamo il senso dell’umorismo. Sono aperto e tollerante, senza pregiudizi ma quello che avviene è un disastro, perché è una semplificazione. Ci sono centoventi gender che litigano tra loro. Siamo andati nella follia, ci sarà una reazione tra qualche anno e torneremo peggio di prima. Purtroppo, queste sono minoranze. Lo abbiamo visto nelle fiction: mettere per forza trans e lesbiche è un finto problema, non è generalizzato e nella narrazione non funziona. Oggi c’è obbligo nelle ‘writing room’ in America di mettere nero, ispanico, lesbico”.
L’America è fatta di neri, ispanici e asiatici.
“Sì, ma non è detto che se tu sei gay o nera sei in grado di raccontare la Rivoluzione francese. Io devo prendere il migliore”. Che può anche essere nero o gay.
Succede, nei momenti di cambiamento.
“Sul vostro giornale c’è stata una serie a puntate di molestate finte, alcune di queste attrici le ho avute a teatro”.
Le attrici di Amleta, l’associazione che contrasta la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo?
“A me viene da ridere, perché alcune di queste non sono state molestate, o sono state approcciate malamente ma in maniera blanda, non cose brutte. Alcune di queste andrebbero denunciate per come si sono presentate. sedendo a gambe larghe: ‘Ciao, che film è questo?’. Non ho avuto mai bisogno di fare trucchi per scopare, una cosa del genere non è il mio stile. Ho detto: ‘Amore, chiudi le gambe, ho visto che hai le mutande, o che non le hai, interessante, ma ora parliamo di lavoro’. Ci sono anche cose così. Secondo me Amleta dovrebbe essere ‘largo’, riguardare non solo le attrici, che sono una piccola comunità. Il problema delle molestie è grave e generale, riguarda la commessa del supermercato che deve subire per non perdere il posto. Questo deve cambiare. Ho quattro figli, un maschio e tre femmine, e voglio che siano dignitose, libere e non subiscano mai. Io sono stato un bambino molestato, mi hanno abusato dagli otto agli undici anni i preti gesuiti a Milano: mi chiudevano in una stanza, uno mi teneva fermo e l’altro mi violentava. Ho fatto una legge su questa cosa qui”.
Perché si sente coinvolto dalle denunce di Amleta in particolare?
“Perché ho trovato il loro un giusto pensiero ma poi è diventato qualcosa di modaiolo. L’attrice che si fa pubblicità, la cosa va avanti per dieci puntate, poi finisce ma non si risolve il problema. In Francia sono impazziti tutti, noi produttori abbiamo fatto un corso sulle nuove regole di set, che sono impossibili da applicare. Stiamo uscendo dal buon senso. Detto questo il film è per me importante perché racconta esattamente lo stato dell’arte oggi. L’ho dichiarato quando ho fatto J’accuse, di Polanski, e ora con il suo nuovo film, The palace, che vedrete che bomba è. Non ci può essere giudizio morale sull’arte. Sennò dobbiamo ascoltare quello che ha detto Marlène Schiappa, ministro francese per le Pari opportunità. Io e Polanski siamo stati assaltati dalle femministe, chiusi in una camionetta della polizia ci siamo guardati: ‘Tua nonna è morta ad Auschwitz, mia nonna a Treblinka, se ci avessero detto che nel 2020 saremmo stati chiusi in una camionetta con fuori donne impazzite coperte di sangue che gridano ‘riaprite le camere a gas’ non ci avremmo creduto'”.
E madame Schiappa?
“Mi urlò ‘uccideremo gli uomini come voi, ma anche i musicisti come Beethoven, la Quinta – ta ta ta ta – è un inno allo stupro’. Ho chiesto se fosse impazzita. Non so Beethoven, Mozart ne ha fatte di tutti i colori ma non si può dare un giudizio morale sull’artista o abbattiamo tutta la cultura occidentale fatta da uomini fallimentari, da Caravaggio a Fellini a Pasolini, la cui moralità è opinabile e la poesia sublime”.
A novant’anni Polanski ha l’energia per fare un nuovo film.
“Sul set mi ha detto ‘se muoio lo finisci tu’. Io gli sono stato vicino, è un uomo di grande dolcezza. Dopo J’accuse, che è una lama, è la sua storia, volevamo altro. Pensavamo al remake di Per favore non mordermi sul collo. Ma poi gli ho chiesto: ma chi è la persona con cui vorresti scrivere? Chi è l’uomo che ti fa più ridere? ‘Jerzy Skolimowski’. Ci siamo tutti chiusi a Gstaad, biglietti da tutte le parti, in tre mesi abbiamo scritto un copione molto divertente, un film che è una metafora meravigliosa della Francia. Roman ha ancora lo spirito di un ragazzino, leggero, appassionato. Ma ha bisogno di avere al fianco qualcuno di cui si fidi. Mentre giravamo a Parigi c’erano i gilet gialli, il giorno in cui sul set è venuto Houellebecq a trovarci, è successo un macello, ci hanno dovuto portare via perché gridavano ‘a morte gli ebrei’. Come dice Roman, uno che è sopravvissuto a Stalin e Hitler, ora è a casa sua e non può sopravvivere ai francesi?